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Ronald Mann

Royal Artillery

Ronald si arruola nel marzo 1940. Nell’agosto 1941 è al comando di una truppa di stanza nel deserto libico il cui compito è quello di compiere attacchi veloci e improvvisi contro i carri armati nemici. È tuttavia ben consapevole di essere assai inesperto in materia di armi e guerra.

Nel marzo 1943, il camion su cui viaggia e che sta per attaccare i tedeschi si blocca all’improvviso; è a poca distanza dai carri armati tedeschi. Benché Ronald fugga via a piedi è raggiunto e fatto prigioniero.

Non è possibile descrivere la sensazione di nausea da cui si è colpiti quando si diventa prigionieri. Un attimo prima vivi in un mondo attivo e familiare, per quanto pericoloso e, all’improvviso, nel giro di pochi minuti, tutto cambia […]. Ma non è il fatto di essere dall’altra parte o di incontrare da vicino i propri nemici che più ti colpisce. È il passaggio dall’azione all’inazione, il passaggio dal dare ordini all’essere portato in giro senza nemmeno riceverne, venendo semplicemente spostato come un carico di munizioni o delle taniche di benzina vuote.

Rimane per circa tre mesi in un campo di transito vicino Tripoli dove contrae una forte dissenteria. È successivamente imbarcato su una nave cargo tedesca con cui raggiunge Napoli e da lì il PG.66 di Capua che descrive come fatiscente e infestato da insetti. Inizia a ipotizzare possibili piani di fuga che, tuttavia, non mette in pratica, dopo aver assistito a numerosi tentativi di altri compagni andati a vuoto.

È in seguito trasferito a nord, presso il PG.17 Di Rezzanello, un antico castello. Nel campo riempie le sue giornate leggendo, studiando l’italiano e pensando a una possibile evasione.

All’improvviso sentimmo che ci avrebbero trasferiti e nel giro di poche settimane ci trovammo in un altro campo occupato da oltre seicento ufficiali. Il campo era stato un orfanotrofio in tempo di pace e si trovava nel centro del paese di Fontanellato, vicino Parma; da lì potevamo osservare la vita ordinaria che si svolgeva al  di fuori.

Il PG. 49 di Fontanellato, come ricorda Ronald, è ben organizzato, «a metà tra una università e un monastero». Segue le lezioni di pittura e pratica alcuni degli sport consentiti.

Il 2 settembre 1943, mentre sta giocando a calcio, si fa male a un occhio ed è così trasportato presso l’Ospedale militare di Piacenza, dove è raggiunto dalla notizia dell’armistizio. Quando iniziano a circolare voci di un imminente arrivo dei tedeschi, Ronald decide di fuggire calandosi da una finestra assieme al compagno Fred.

Potrebbe sorprendere, ma la decisione di evadere di prigione è stata difficile. Da un lato c’era il mondo sicuro ma triste della prigionia, dove c’erano almeno un letto, un po’ di cibo, un po’ di calore e una certa sicurezza. Dall’altro c’era il pericolo del freddo e della fame, senza un posto sicuro dove dormire e né certezze. Il fascino di ciò che è conosciuto e sicuro è sempre forte, anche nei campi di prigionia.

In treno raggiunge Bettola, un villaggio tra le montagne piacentine. Trova ospitalità presso una fattoria del luogo, dove trascorre, per la prima volta dopo tanto tempo, la notte in un vero letto.

Ronald descrive nelle sue memorie la vita nelle case contadine che via via lo accolgono; racconta del ruolo subordinato delle donne; ricorda le diverse pietanze -in particolare la polenta- che gli vengono offerte.

Decidemmo di riposarci in quella zona per due o tre giorni. Il tempo era grigio. Difficile realizzare che vivevamo al di sopra dei mille metri sopra il livello del mare. Il senso di libertà che ho provato può essere meglio descritto paragonandolo alla scomparsa di un mal di denti o di un dolore o di una malattia fisica. Al campo, anche quando ero davvero in forma, sentivo sempre che una delle mie abilità mancava o era fuori uso. Ora, anche se di fatto avevo perso l’uso di un occhio, mi sentivo di nuovo “tutto d’un pezzo”.

Fagnano Alto in un dipinto ad olio realizzato da Ronald nel dopoguerra (Fonte: R. Mann, Moving the mountain)

Dopo aver valutato tutte le possibili opzioni: restare ancora in zona, dirigersi verso la Svizzera, decide di muoversi verso sud, convinto di raggiungere con relativa facilità le linee alleate. Il tempo è ancora buono ed è certo di ricevere cibo ed ospitalità dai contadini che incontrerà lungo il tragitto. È il 13 ottobre 1943, lui e il suo compagno Fred si mettono in viaggio.

Camminano per quattro settimane percorrendo circa 250 chilometri, ma il tragitto da affrontare è ancora lungo e l’inverno alle porte rende difficile muoversi tra le montagne. Le truppe alleate sono ferme: « A questo punto però sia io che Fred abbiamo sentito di dover andare avanti anche se fosse stato necessario affrontare l’impossibile».

Il tempo si mantiene buono e li assiste nell’attraversare il tratto ferroviario, tutto in galleria, tra Bologna e Firenze. Raggiungono Prato e risalgono in montagna attraversando il Monte Falterona.

Nell’avvicinarsi alla linea di combattimento, la situazione cambia. Sono costretti a rimanere nella parte alta delle montagne, senza poter scendere a valle. Si avventurano, così, sul Gran Sasso, ricoperto dalla neve. Il percorso è difficoltoso e accidentato. Vengono avvisati come la valle sia piena di tedeschi.

L’incontro con Vittorio, ex minatore, si rivela particolarmente importante. Nel metterli in guardia circa il pericolo che corrono nell’attraversare la zona, questi si offre di nasconderli affinché possano attendere l’arrivo degli alleati. Rimangono nella grotta che lui stesso costruisce tra le case del piccolo villaggio di Frascara (Fagnano Alto) per oltre tre mesi.

La grotta si trovava su una collina terrazzata sopra il borgo di Frascara che consisteva di appena quindici famiglie. Era così ben nascosta su una delle tante terrazze che spesso facevamo fatica a trovarla da soli.
Vittorio e sua moglie Anna sono stati meravigliosi con noi, portandoci cibo per colazione e pranzo. La sera scendevamo a casa loro, che era sul bordo della collina, per mangiare con la famiglia.

Festeggiano il Natale 1943 assieme alla famiglia di Vittorio. Il 4 febbraio 1944 Ronald annota nel suo diario di essersi lavato, sbarbato e con indosso uno dei migliori abiti di Vittorio, di aver visitato la fiera della vicina Fontecchio, nonostante la cittadina fosse sede del quartier generale tedesco, mescolandosi tra la folla.

Un mese più tardi, l’incontro con Roane, un pilota americano, lo convince che è arrivato il momento di riprendere il cammino verso sud. L’obiettivo è quello di valicare la Maiella. È il 14 marzo 1944.

La partenza da Frascara e da Vittorio, Anna ed Elisa è stata un po’ come abbandonare casa. Dal momento in cui ho condiviso con loro il proposito di andare via, mi hanno più volte elencato tutte le ragioni per restare. Tutte le persone del villaggio, dove ci siamo sentiti a casa, sono state molto gentili.

Ronald Mann in uniforme (Fonte: R. Mann, Moving the mountain)

I giorni a seguire si rivelano duri e pericolosi, dal momento che devono muoversi attraverso una zona occupata dalle linee di rifornimento tedesche. Camminano di notte e si nascondono di giorno. Le temperature sono rigide ed è impossibile dormire. Iniziano a mancare acqua e cibo.

Aggregatisi a un gruppo di italiani, iniziano la difficile scalata verso la cima del monte, trovandosi spesso a distanza ravvicinata con i tedeschi e, man mano che salgono in quota, immersi nella neve e in zone ricoperte di ghiaccio. Più volte intraprendono sentieri che devono abbandonare, tornando indietro.

Vengono a sapere che a Sulmona è attiva una organizzazione con delle guide del posto che potrebbe aiutarli a oltrepassare la cima del monte. Diretti da Mario, una delle guide del gruppo, e assieme ad altri italiani, sud africani e a uno scozzese – 17 uomini in tutto- iniziano l’ultima scalata affrontando un percorso diverso da quello che hanno tentato nei giorni passati: «Le guide dissero che ci sarebbero volute cinque ore per raggiungere la cima e tra le sei e le sette ore per raggiungere l’altro lato, dove si trovavano le nostre truppe».

Man mano che le difficoltà del tragittano aumentano e la neve e il vento gelido non danno tregua, malori e cedimenti iniziano a minare il gruppo; sono, in particolare due dei prigionieri sud-africani, colpiti da congelamento, a dover essere trascinati a spalla dagli altri compagni.

Alla fine scendemmo in una valle dai pendii ripidi, mentre il tempo si era rasserenato. Avanzammo con cautela, temendo la presenza di pattuglie nemiche e quando vedemmo una strada mandammo avanti uno degli italiani in ricognizione. Ci fece segno di avvicinarci e raggiungemmo la via, in basso un villaggio completamente distrutto. Ogni edificio, compresa la chiesa, era in macerie e intorno il deserto. Dopo un po’ di difficoltà raggiungiamo la strada sulla sinistra. C’erano segni di pneumatici e Roane giurò che erano stati fatti da pneumatici americani.
Quando in vista di Palombaro ci fermammo di nuovo, uno degli italiani si fece avanti e chiese ad una ragazzina chi ci fosse lì, se inglesi o tedeschi. Lei rispose: inglesi, o forse indiani, e così proseguimmo.
[…] Un momento che sognavo da due anni. Impossibile per me realizzare che ero libero.

Nei giorni a seguire Ronald è trasferito a Napoli e da lì imbarcato alla volta di Glasgow

Due settimane dopo stavo finalmente varcando la soglia di casa. Devo aver immaginato quel momento centinaia di volte.

Bibliografia/Fonti

R. Mann, Moving the mountain, Aldersgate Productions Ltd, London, 1995