Robert «Bobby» Walker-Brown
Il capitano «Bobby» Walker-Brown viene ferito e catturato il 10 giugno 1942, durante la battaglia di Ayn al-Gazala in Libia. Portato in Italia, rimane per qualche tempo nell’ospedale di Lucca e viene quindi trasferito, nell’autunno, nel PG 21 di Chieti.
Fin da subito, inizia a organizzarsi per fuggire. Con un gruppo di prigionieri, inizia a scavare un tunnel per superare le recinzioni del campo. Il piano è quello di partire dall’edificio delle latrine/docce (presumibilmente per permettere a chi scava di lavare via lo sporco una volta uscito dal tunnel) e quindi riemergere dietro un grande albero di fico, al riparo da sguardi indiscreti. Il lavoro è però difficile, il tunnel è stretto e umido e bisogna scavare da nudi per non sporcare i vestiti.
Dopo alcuni giorni di lavoro, gestire le scorie divenne difficile. Creammo una slitta improvvisata con delle doghe prelevate dai nostri letti a tre piani infestati dagli insetti. Con l’aiuto di una corda divenne possibile spostare delle scatole piene [di terra] fino alla superficie e quindi recuperare la slitta con le scatole vuote; questo ci fece risparmiare molto tempo.
Il lavoro procede lentamente, perché la sorveglianza degli italiani è stretta, ma anche perché il gruppo non riceve molto aiuto dagli altri prigionieri.
La vista e la puzza di uomini nudi e coperti di argilla che saltavano attraverso le finestre delle docce suscitava poca comprensione nella maggior parte dei prigionieri, molti dei quali erano infastiditi dalle nostre attività che vedevano come una minaccia alla pace nel campo. Dei circa novecento ufficiali prigionieri, inclusi due o trecento sudafricani presi a Tobruk, meno di quaranta parteciparono in tentativi di fuga.
Dopo cinque settimane, i prigionieri arrivano al limite dell’edificio (e quindi del pavimento) e devono scavare verso il basso per non far notare la galleria in superficie. Altre doghe vengono rimosse e usate per puntellare la galleria. Devono anche ingegnarsi per assicurare un flusso d’aria, usando a mo’ di tubo alcune lattine vuote arrivate con i pacchi della Croce Rossa, assicurate l’una con ‘altra usando dell’argilla. Dopo un altro periodo di scavo, il gruppo incappa in un oggetto in cemento. Una volta aperto, scoprono che si tratta di una canaletta di scolo per le fogne, che rende l’aria all’interno del tunnel irrespirabile. I lavori vengono così interrotti, «appena in tempo». Gli italiani, infatti, insospettiti da qualcosa, conducono perquisizioni approfondite che portano alla scoperta di due altri tunnel abbandonati e scorte di provviste accantonate per la fuga. Ai prigionieri viene imposto un altro appello a metà giornata, che complica i lavori di scavo, ma il gruppo di Robert non si dà per vinto e organizza dei turni per continuare.
Sei ufficiali non impegnati nello scavo fingevano di essere malati. I loro nomi venivano consegnati agli italiani ogni giorno in una lista. Tuttavia, si recavano anche all’appello per coprire i sei nel tunnel e il loro posto veniva preso da manichini nei letti. Sorprendentemente, questo inganno ebbe successo molte volte durante delle perquisizioni a sorpresa.
Il lavoro dunque prosegue, anche se le condizioni sono infernali: gli effluvi dalla fogna (che viene “forata” per permettere il passaggio della galleria) causano ben presto lo svenimento di due uomini impegnati nello scavo, uno dei quali per poco non muore. Tuttavia, dopo altri tre mesi di lavoro, il gruppo raggiunge le fondamenta del muro di cinta. Rincuorati, proseguono, riuscendo a passarvi al di sotto. Ben presto, incontrano le prima radici di piante, capendo di essere all’esterno. Riescono anche a produrre un rudimentale periscopio, grazia al quale possono determinare la loro posizione con precisione.
A questo punto, però, è ormai settembre. Robert e i suoi compagni non sanno bene cosa stia succedendo in Italia ma, visto che il Senior British Officer ordina a tutti i prigionieri di non provare a scappare, decidono di attendere. Tuttavia, qualche giorno dopo, il campo viene occupato dei tedeschi, che si preparano a deportare i prigionieri. Nonostante il SBO continui a opporsi a tentativi di fuga, «decidemmo fosse l’ora di andarcene». «La fuga fu alquanto anti climatica; dopo aver aspettato sottoterra per molte ore, intuimmo che il campo fosse ormai vuoto e evademmo senza problemi durante la notte».
Robert inizia la sua marcia verso sud con due compagni, mantenendosi sulle alture poco distanti dalla costa adriatica. Dopo dieci giorni di marcia sentono ormai il rumore degli spari e le esplosioni provenienti dal fronte. Quando sono ormai vicini, però, vengono ricatturati da una pattuglia tedesca che li incrocia per caso.
L’ufficiale comandante era sospettoso, comprensibilmente, e ci ordinò di scavare una stretta trincea, mentre [i soldati] montavano la MG 42 [un tipo di mitragliatrice] rivolta verso di noi. Pensieri poco piacevoli ci attraversarono la mente. Tuttavia, “per fortuna” finimmo sotto il fuoco [delle truppe alleate] e i tedeschi abbandonarono la posizione – in buon ordine.
Robert e i suoi due compagni sono così individuati dalle avanguardie delle truppe alleate, che li traggono in salvo. Robert viene condotte a sud, ma la sua permanenza in Italia non è ancora finita. Sarà lui, infatti, a guidare l’operazione «Galia» delle truppe speciali britanniche (le SAS), paracadutate sulle posizioni controllate da una banda partigiana guidata da un altro prigioniero di guerra fuggiasco, il maggiore Gordon Lett, nella valle di Rossano, tra la fine di dicembre 1944 e il febbraio 1945.