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Moran Caplat

(1916-2003)

Royal Navy Volunteer Supplementary Reserve (Yachtsman’s Reserve)

Appassionato velista, attore e, nel dopoguerra, direttore di teatro, Moran si arruola nel 1939 nella “Yachtsman’s Reserve”. Nel giugno 1940 salpa da Ramsgate per Dunkerque con l’obiettivo di contribuire all’evacuazione dell’esercito britannico. Passato ai sommergibili, entra a far parte dell’equipaggio della HMS Tempest di pattuglia nel Mediterraneo. Il 13 febbraio 1942 il sottomarino inglese, che si trova a circa 30 miglia a nord-est di Crotone, è affondato dal cacciatorpediniere italiano Circe. I membri dell’equipaggio sopravvissuti, ora prigionieri, vengono destinati a campi diversi: Moran, che appartiene al gruppo degli ufficiali, è traferito presso il PG. 75 di Torre Tresca (Bari).

Copertina delle memorie di Moran Caplat

La baracca era piena di letti di ferro del tipo più primitivo, con solo pochi centimetri di distanza tra l’uno e l’altro; c’era un lungo tavolo al centro circondato da panche, e nessun altro mobile. La maggior parte dei letti era occupata da ufficiali dell’esercito britannico, che indossavano ciò che restava dell’abito da battaglia. Alcuni di loro erano sikh con il turbante. C’era un’aria generale di disperazione. I detenuti guardavano con stupore noi tre ufficiali della Marina elegantemente vestiti e con le valigie che erano arrivati improvvisamente in mezzo a loro. Trovammo tre letti e cominciammo a fare il punto della situazione.

Della struttura Moran ricorda le pessime condizioni: non venivano recapitati pacchi della Croce Rossa, non c’era nessuna comodità o possibilità di svago; sebbene ci fosse un continuo via vai di arrivi e partenze nessuno sembrava sapere quanto tempo sarebbe rimasto o quale sarebbe stata la sua destinazione successiva; le razioni, sempre misere, consistevano in una ciotola di minestra con due ciuffi di cavolfiore crudo e quattro o cinque pezzi di pasta dal sapore di cartone. Assiste inoltre all’ingiustificata fucilazione di due prigionieri che hanno tentato la fuga, poi ricatturati.

Nei giorni a seguire Moran e i suoi compagni ricevono notizia di un prossimo trasferimento presso il PG. 38 di Poppi (Arezzo), dove la situazione sembra essere di gran lunga migliore.

Mi ritrovai al campo 38, in un edificio in cima a una collina presso Poppi, in Toscana. Il palazzo era la residenza estiva di un ordine di suore, credo di Firenze. Era arredata in modo semplice, ma pulita e spaziosa e noi eravamo solo in quattro o sei per una stanza grande. I miei compagni di prigionia questa volta, a parte i pochi che erano venuti con me da Bari, erano tutti neozelandesi. […] Se il campo non era la “villa sul lago” che ci era stata promessa, era comunque abbastanza civile.

È una permanenza breve, però, perché a metà maggio vengono nuovamente spostati in altra struttura, il PG. 35 di Padula (Salerno) «nell’imponente edificio, vasto e bellissimo della Certosa». Attraverso il chiostro si accedeva alle stanze, soprannominate “quartieri”, dove i prigionieri erano alloggiati: ognuna consisteva in un ingresso, due grandi camere e un lungo passaggio che portava a un bagno. Ogni quartiere aveva anche un piccolo giardino recintato, a cui si accedeva tramite una rampa di scale.

Nel campo, ricorda lo stesso Moran nelle sue memorie, c’erano circa cinquecento ufficiali, un gruppo misto, composto in maggioranza da militari di marina e della RAF. Presenti anche una cinquantina di “altri ranghi “che fungevano da inservienti e lavoravano in cucina.

I prigionieri facevano capo a un comitato composto dai tre ufficiali inglesi più anziani sotto il comando del brigadiere Mountain. I pasti venivano consumati in due o tre sedute nel grande refettorio: «il cibo era meno buono e abbondante che a Poppi, ma comunque molto meglio che a Bari».

Quando Moran, che si è formato come attore, giunge al campo, l’unico intrattenimento teatrale è la presenza di concerti improvvisati.

Il primo miglioramento che apportai fu quello di preparare un cartellone misto di spettacoli di Shakespeare, tutti scelti per le parti maschili. […] Il successo fu enorme. I biglietti vennero fatti pagare poco e all’ultima rappresentazione il prezzo al mercato nero era dodici volte superiore rispetto al loro valore nominale; si parlò addirittura di mettere in scena lo spettacolo a Londra per beneficenza al nostro ritorno.

Non mancano i piani di fuga: nel quartiere 5, dove è alloggiato lo stesso Moran, alcuni prigionieri decidono di scavare un tunnel che dal giardino possa condurli al di là del muro della struttura. Approfittano, in tal senso, dell’attività di giardinaggio a cui alcuni hanno iniziato a dedicarsi e che permette loro di avviare i lavori senza destare troppi sospetti. La realizzazione della galleria, scavata avvalendosi di un semplice cucchiaio e la cui apertura è di volta in volta coperta da un vassoio su cui sono stati piantati dei pomodori, facilmente confondibile con una zolla di terra, è però lenta e il buco si rivela presto troppo poco profondo. Il progetto è dunque abbandonato.

Un nuovo tentativo viene in seguito intrapreso presso il dormitorio 6: il varco questa volta passa attraverso il pavimento piastrellato del bagno. Quando il tunnel è pronto, i prigionieri che hanno partecipato alla sua realizzazione, tirano a sorte per decidere l’ordine di partenza della prima dozzina di militari che potrà calarvisi; se l’evasione non fosse stata scoperta, i “non estratti” avrebbero avuto occasione di tentare la fuga il giorno successivo. Compito di Moran è quello di assistere i primi fuggitivi: aiutarli a calarsi nell’apertura e ricoprire l’uscita.  Dopo l’evasione dei dodici militari, che avviene con successo, le guardie del campo scoprono quanto accaduto: il tunnel viene presto allagato e murato, divenendo così inutilizzabile.

Nei mesi di prigionia Moran si dedica alla scrittura di opere teatrali che poi mette in scena. All’inizio di aprile 1943, mentre è impegnato nelle prove generali di una commedia musicale, l’interprete del campo lo cerca nel teatro-refettorio, comunicandogli che il comandante del campo vuole vederlo immediatamente.

Riceve cosi una notizia che lo lascia stupefatto: lui e altri tre prigionieri della marina sarebbero stati a breve rimpatriati.

Non ci è stata fornita alcuna ragione sul perché fossimo stati scelti, sembrava solo una decisione arbitraria. Non eravamo né i più anziani, né malati. Nessuno seppe dare una spiegazione; ci prese però il timore che prima o poi saremmo stati trasferiti in Germania e che questo potesse essere il primo di una serie di stratagemmi per farci “andare tranquilli“.

Nelle ore successive il comitato per la fuga del campo li equipaggia con mappe di carta velina, bussole, torte di cacao e burro, affinché siano in condizioni di poter tentare un’eventuale fuga. Alle quattro del mattino si presentano ai cancelli principali come concordato. Fuori nel cortile, ad attenderli, un camion dell’esercito italiano. Un ufficiale e quattro guardie li scortano verso la stazione: il treno su cui sono fatti salire, con loro grande stupore, non parte verso nord ma in direzione est: «Per quanto fossimo increduli iniziammo a pensare che forse non si era trattato di un inganno».

Sono diretti a Bari, dove la nave ospedale “Gradisca” li aspetta assieme a un nutrito gruppo di personale della Marina, ufficiali e uomini provenienti dai vari campi, tutti ugualmente sconcertati dall’improvvisa fortuna.

Al mattino capiscono che stanno navigando verso est, diretti a Mersin, in Turchia. Temono che gli inglesi, sospettosi dell’uso che i tedeschi fanno delle navi ospedale, potessero silurale l’imbarcazione. Due giorni dopo, al mattino presto, la “Gradisca” getta l’ancora nella baia di Mersin, qui sono fatti salire su una vecchia nave con bandiera rossa la “Talma”.

A ciascuno di noi fu concesso di inviare un breve telegramma per avvisare casa. Non ricordo cosa ho scritto nel mio e nessuno sembra averlo conservato, ma conosco l’indirizzo a cui l’ho inviato: Hodges Place, Offham, Kent.

Fonti: