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Robert Walter Calvey

(1922-2011)
Trooper, 46th Reconnaissance (Recce) Corps

Robert sbarca a Salerno il 9 settembre 1943, è catturato poche settimane dopo mentre tenta, con i suoi compagni, di avvicinarsi al fiume Garigliano. 

A circa 20 metri dal bunker ho sentito il rumore dell’otturatore del fucile che veniva colpito, pochi secondi dopo è risuonato uno sparo. Sono caduto a terra all’istante e ho lanciato un urlo agghiacciante dal momento che avevo due granate nelle tasche dei miei pantaloni, l’unico posto che mi era rimasto per trasportarle. Ho sentito qualcuno gridare: “Il vecchio Calvey ce l’ha fatta”. Mentre mi alzavo faticosamente da terra, maledicendo le bombe a mano insanguinate, due tedeschi con le baionette fisse mi scortarono sulla riva del fiume fino a una postazione di cemento, dove ciò che rimaneva della nostra pattuglia stava disarmato e avvilito.

Viene immediatamente trasportato nella vicina Frosinone e alloggiato presso alcune caserme dismesse adibite a campo di raccolta[1], qui trascorre un paio di mesi. È in seguito trasferito presso il PG. 54 di Fara Sabina. Con l’obiettivo di ottenere razioni di cibo maggiori, decide di offrirsi volontario per eseguire alcuni lavori edili richiesti dai tedeschi presso una vicina fattoria.

La permanenza nel campo è però breve: dopo circa tre settimane, tutti i militari internati nella struttura sono riuniti all’esterno e scortati fino a un vicino binario di raccordo. C’è  un treno pronto a partire per la Germania.

Il 28 gennaio 1944, mentre il convoglio sta transitando su un ponte nei pressi di Allerona, è colpito da un pesante bombardamento dell’aviazione americana.

All’improvviso ci fu una violenta esplosione, il treno si fermò bruscamente, gettandoci a terra alla rinfusa. Ci eravamo appena rialzati quando un’altra esplosione assordante ha scosso il nostro vagone, buttandoci di nuovo a terra inermi. Le schegge avevano aperto un buco nel tetto e l’esplosione aveva divelto completamente la porta. Riprendendo i sensi, attraverso il fumo e la paglia, la polvere e altri detriti, vidi la luce del giorno filtrare attraverso la porta.
Facendomi largo tra un mucchio di corpi, mi diressi senza esitazione verso la porta, gli altri spingevano disperatamente da dietro. Sono riuscito a non essere spinto verso un dislivello alto circa 40 metri. Eravamo pericolosamente sospesi su un viadotto, per la gran parte demolito.[…]  Il nostro vagone era in equilibrio precario sul bordo e avrebbe potuto ribaltarsi da un momento all’altro. Era uno spettacolo orribile e incredibile allo stesso tempo.

È il momento adatto per fuggire. Percorre dall’esterno cinque vagoni fino a raggiungere un punto da cui riesce a saltare giù in modo sicuro. Rotola in terra dirigendosi di corsa nella parte più boscosa della vicina collina. Mentre si nasconde tra i cespugli si imbatte in altri due prigionieri che come lui sono riusciti ad abbandonare il treno: George (Gibson) e William (Geordie)[2].

Come me erano entrambi piuttosto esausti, quindi ci siamo spostati nella zona più boscosa del nostro nascondiglio e ci siamo seduti, dopo un breve riposo abbiamo discusso della nostra prossima mossa. Sapevamo che i tedeschi avrebbero fatto la conta dei morti, dei feriti e l’appello dei prigionieri rimasti, e avrebbero avviato una perquisizione della zona su vasta scala. La nostra decisione finale fu quella di spostarci a sud, nella speranza di incontrare le truppe alleate che avanzavano.

Robert Calvey (Fonte: J. Dethick, La lunga via del ritorno)

Robert, Geordie e Gibson si incamminano verso sud. È autunno inoltrato e il tempo variabile. Geordie, che conosce bene l’italiano, diviene il loro interprete. Si muovono attraverso le campagne, dal momento che un contadino li informa che la vicina Orvieto è occupata dai tedeschi. Ogni sera trovano rifugio e ospitalità presso una famiglia diversa. Dopo essere fuggiti di corsa da una delle capanne in cui si sono accampati per la notte, spaventati dalla presenza di alcune figure che non riescono a identificare, scoprono di aver percorso diversi chilometri in direzione opposta rispetto al percorso che si erano prefissi. Stabiliscono, allora, di cambiare i propri piani e di cercare un rifugio dove poter attendere l’arrivo degli alleati.

Giunti presso un villaggio, affamati e assetati, decidono di entrare in una locanda. Qui vengono avvicinati da un uomo che parla in inglese e che suggerisce loro di abbandonare il locale perché ritrovo di fascisti. Si propone di aiutarli e chiede loro di attendere che torni dalla toilette. I minuti passano, i tre si fanno sospettosi e scelgono di andare via. Ma è troppo tardi:

Ci alzammo, ci dirigemmo con disinvoltura verso la porta e uscimmo sulla strada. Ci fermammo di colpo. Dall’altra parte della strada, alle due estremità del villaggio, a circa 150 metri di distanza, c’era una fila di uomini e giovani armati […]. Nel giro di pochissimi secondi, la porta del bistrot dietro di noi si è aperta e il nostro amico di lingua inglese, di pochi minuti fa, era lì con una mezza dozzina di amici.

Nonostante cerchino di fuggire vengono presto ricatturati dal gruppo di fascisti.

Come comunica loro l’uomo che li ha avvicinati presso la locanda, a capo delle camicie nere, saranno fucilati dal momento che hanno indosso abiti civili, non possiedono documenti e potrebbero dunque essere spie.

Hanno appena raggiunto il luogo in cui avverrà l’esecuzione quando interviene il parroco del paese che riesce a sospendere la sparatoria: «Guardammo i due italiani come dire, questa battaglia l’abbiamo vinta noi. Il sacerdote ovviamente dominava il paese più di quanto facesse il movimento fascista», ricorda con sarcasmo Robert.

Nel febbraio 1944 transitano per il PG. 77 di Pissignano.

Dopo un viaggio di più di un’ora l’automezzo di fermò davanti a ciò che all’inizio sembrava una piccola cava di roccia calcarea, e forse una volta lo era. Una parte della collina era stata scavata, creando una parete verticale di terra e roccia, alta una quarantina di piedi, con una superficie di base di circa settantacinque iarde quadrate. Dentro al recinto c’erano sei capanne di legno di moderate dimensioni. Pare  fosse un campo di transito temporaneo per prigionieri di guerra.

Alla fine del mese vengono trasferiti presso il PG. 82 di Laterina. Il campo ha raggiunto in quei giorni la sua massima capienza. Robert viene presto a sapere che nell’arco delle ultime settimane molti prigionieri sono riusciti a fuggire dalla struttura ed è pronto a tentare una evasione assieme a Gibson e Geordie. Dopo numerosi rinvii dovuti all’indecisione prima dell’uno, poi dell’altro, scopre che i due compagni sono in realtà fuggiti assieme fingendosi operai italiani, uno stratagemma riuscito anche grazie all’ottima conoscenza della lingua di Geordie. Capisce che non hanno potuto coinvolgerlo in un simile piano sia perché la squadra di manutentori che entra e esce dal campo è di solito composta da due soli elementi sia perché i suoi capelli sono troppo biondi e ciò non lo avrebbe reso credibile nella parte.

Nei giorni a seguire decide che non metterà in atto piani di fuga, ma proverà ad evadere solo quando sarà inviato in Germania, traendo questa volta vantaggio dall’avere colori chiari «in un paese in cui le persone con capelli biondi sono la maggioranza» 

Una settimana dopo l’appello del mattino l’intero campo fu radunato all’esterno e dopo una breve ricerca di effetti personali, nel mio caso nessuno, fummo condotti verso un vicino binario di raccordo. Ad accompagnarci c’erano guardie pesantemente armate con cani da guardia dall’aspetto feroce.
Eravamo in viaggio per la Germania

Trasferito presso lo Stalag IVB di Mühlberg e poi presso lo Stalag 11a Altengrabow, Robert non fuggirà mai, trascorrendo gli ultimi periodi di prigionia presso l’Arbeitskommando 544/9 di Magdeburgo.

Bibliografia/Fonti

R.W. Calvey Name, Rank and Number  The Book Guild Lewes, Sussex, 1998.

J. Kinrade Dethick, La lunga via del ritorno. I prigionieri alleati in Umbria (1943-44), Morlacchi Editore, Perugia, 2018.

Campo PG. 82 Laterina -Testimonieshttps://powcamp82laterina.weebly.com/testimonies.html

 


Note:

[1] Si tratta probabilmente del campo di concentramento delle Fraschette. Il campo nacque per ospitare prigionieri di guerra ma fu utilizzato durante la seconda guerra mondiale come campo di internamento di civili, e, al termine del conflitto, fu trasformato prima in centro di raccolta per stranieri e, a partire dagli anni 60, per i profughi italiani espulsi dalle dittature dei paesi dell’Africa del Nord.

[2] Si tratta di George Arthur Gibson, 46 Recce Regiment  e William ‘Bill’ Blewitt (Geordie), Sherwood Foresters.