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Anthony (Tony) Deane Drummond

Major, 1st Airborne Divisional Signals

Anthony Dean Drummond nel 1943 Fonte: Pegasus Archive

Ufficiale del corpo Royal Signals[1] il Maggior Deane-Drummond è uno dei primi uomini ad unirsi all’11° battaglione del Servizio Aereo Speciale (11th Special Air Service Battalion). Nel dicembre 1940 è scelto per partecipare all’ “Operazione Colossus”, la prima incursione di paracadutisti inglesi in Italia meridionale che ha l’obiettivo di distruggere il ponte-canale del Tragino, principale ramo dell’acquedotto pugliese che rifornisce d’acqua la regione, con i porti e le basi militari di Bari, Brindisi e Taranto.

Sebbene l’operazione, comandata dal generale T.A. Pritchard, si concluda con un successo (il ponte Tragino e l’altro vicino canale sul torrente Ginestra sono minati e abbattuti) ogni membro dell’unità, che al termine dell’azione si è divisa in tre gruppi -ciascuno dei quali punta a raggiungere la costa per imbarcarsi su un sottomarino britannico- è alla fine catturato dalle forze italiane.

Tony è in cammino con il maggiore Pritchard. Il gruppo punta a coprire circa 80 chilometri in cinque giorni: l’ambizioso programma, tuttavia, si scontra ben preso con le difficili condizioni ambientali e metereologiche, in un territorio densamente popolato da “nemici”. Presso Teora (Avellino) sono intercettati da un abitante del posto che allerta le autorità del paese. Benché siano armati di sole pistole, gli inglesi si prepararono alla difesa, proposito da cui, tuttavia, sono presto costretti a desistere per evitare che lo scontro a fuoco possa causare la morte dei tanti civili, tra cui molti bambini, che si sono radunati per osservare quanto accade. Pritchard finisce così per ordinare ai suoi uomini di deporre le armi e arrendersi. A proposito della cattura Tony ricorda: «Non mi sono mai vergognato così tanto prima e dopo di allora, che ci fossimo arresi a un manipolo di contadini italiani praticamente disarmati».

Nei giorni a seguire vengono trasportati a Napoli, presso il carcere militare. Sono poi trasferiti presso l’aerodromo della città dove trascorrono due settimane godendo di un buon trattamento. Il 28 febbraio 1941 partono per il P.G. 78 di Sulmona. Nel corso dei primi due mesi i paracadutisti sono separati dagli altri prigionieri ospitati nel campo, alloggiati in una baracca di piccolissime dimensioni e costantemente sorvegliati da una sentinella: «I due mesi successivi sono stati un inferno. Eravamo provati più di molti altri perché abituati a una vita attiva e di movimento». Il 1° maggio, in seguito alle rimostranze dell’attaché militare americano, sono trasferiti all’interno del campo assieme agli altri ufficiali:

Alla fine il grande giorno è arrivato e siamo stati condotti nel complesso principale. Ricordo che fummo trattenuti per una ventina di minuti prima che ci fosse consentito l’ingresso […]. Poi siamo entrati tutti insieme attraverso il cancello sentendoci impacciati e imbarazzanti. Dopo essere stati solo tra di noi per così tanto tempo era davvero straordinario essere di nuovo in contatto con il mondo esterno, o almeno così ci sembrava in quel momento.

Fin da subito Tony inizia a progettare piani di fuga: «La prima idea per evadere l’ho avuta mentre guardavo la spazzatura che veniva trasportata su carriole e scaricata appena fuori dal filo spinato. Ogni mattina un grande sacco carico di residui di bucce viene portato all’esterno: avrei potuto sostituirmi agli scarti della verdura».

Qualche giorno prima della data scelta -il 15 luglio 1941- fa però l’errore di condividere il suo proposito con altri prigionieri. Qualcuno, evidentemente, diffonde la notizia perché la mattina successiva gli italiani iniziano a perquisire i sacchi in uscita. Il piano fallisce.

Nel mese di dicembre effettua un nuovo tentativo, riuscendo a evadere con successo.

Avevo notato una sporgenza di piccole dimensioni che oltrepassava il filo spinato, laddove il terreno cambiava di livello. I riflettori, tuttavia, lo illuminavano e una sentinella era appostata a poca distanza. Con l’aiuto di un amico (Il Capitano Christopher G. Lea) ho deciso di sfruttare tale sporgenza. Abbiamo costruito una scala e deciso di fingerci elettricisti.
Nella notte prestabilita siamo scesi giù dal muro interno del campo e, portando con noi la scala, una lampadina e un rotolo di filo, abbiamo percorso il corridoio di un edificio in cui si trovavano la sala delle guardie e la mensa. Questo ci ha permesso di oltrepassare il filo spinato. Abbiamo poi marciato verso la luce che brillava sul cornicione e appoggiando la scala al palo abbiamo svitato la lampadina. La sentinella ci ha chiamati e noi abbiamo risposto in italiano: «Elettricisti». Poi ci siamo spostati verso la sporgenza. Mentre facevamo ciò la sentinella si è insospettita e ha sparato, colpendo a una gamba il capitano Lea. Questi si è arreso mentre io ho proseguito. Nell’allontanarmi mi sono reso conto che ero effettivamente riuscito ad evadere e che ora ero sulla strada maestra per la libertà.

L’obiettivo di Tony è quello di raggiungere la Svizzera. Nei giorni a seguire si dirige a piedi verso Pescara, presso la stazione della città compra un biglietto per Milano. Ha un passaporto falso e alcuni distintivi con cui si finge tedesco. Giunto nel capoluogo lombardo si rende conto che fino al mattino successivo non ci sono treni per Como, dove ha intenzione di valicare la frontiera; trascorre quindi la notte nella sala d’attesa della stazione, confondendosi con gli altri viaggiatori. Il giorno dopo raggiunge senza particolari problemi la cittadina di confine ma, mentre è in cerca di un posto in cui riposarsi, è fermato da due guardie di frontiera che gli chiedono il lasciapassare e, insospettite dalle scarpe consumate e dall’aspetto trasandato, lo trasferiscono presso il posto di blocco di Ponte Chiasso dove è presto identificato. È il 13 dicembre 1941.

Sono stato sistemato in un’altra stanza, con due guardie che mi piantonavano; mi offrirono un pasto preparato presso un ristorante locale. Ne ricordo ancora oggi il sapore, un momento di gioia oscurato dal pensiero di essere arrivato così vicino e allo stesso  tempo così lontano. Ero a venti metri dal suolo svizzero e questa avrebbe potuto essere la mia ultima occasione in guerra per arrivare a toccarlo e poi sarebbero passati sicuramente altri sei mesi prima di avere l’opportunità di effettuare un nuovo tentativo. Non sono mai stato così depresso, né prima né dopo. La mia esistenza, che sembrava essere diventata più luminosa, era adesso nera come l’inchiostro.

Di nuovo prigioniero è trasferito presso il PG. 41 di Montalbo, qui condannato a trentacinque giorni di isolamento.  

Montalbo era un antico castello costruito sulla sommità di una collinetta che dominava la pianura padana. Accanto a un’ala del castello era appena stata costruita una cella di punizione per gli ufficiali. A quel tempo Montalbo era stato aperto solo da pochi mesi ed era a uso esclusivo di un’ottantina di ufficiali prigionieri di guerra. Appena arrivato sono stato messo direttamente in cella […]. Era tutto assai poco confortevole, fatta eccezione per il cibo, relativamente buono, che proveniva dalla cucina degli ufficiali del campo principale. Non erano ammessi libri, né materiali per scrivere e nemmeno matite. Facevo esercizio fisico solo mezz’ora al giorno, e questo in una specie di gabbia per uccelli fuori dalla porta della mia cella.

Il 20 gennaio Tony viene nuovamente trasferito presso il campo di Sulmona da cui è fuggito sei settimane prima. Vi rimane un mese, quando gli italiani comunicano a lui e ad altri sette ufficiali, tra cui il Maggiore Pritchard -tutti prigionieri “pericolosi”, che hanno più volte tentato di fuggire- che saranno spostati presso il campo 27 di San Romano, vicino Pisa.

Si tratta di un ex monastero adibito a prigione che oltre agli otto ufficiali inglesi, ospita anche militari greci. Metà della struttura è ancora occupata dai monaci.

Dopo due mesi di permanenza, Antony e il maggiore Pritchard, decidono che è tempo di evadere.

I corridoi che portavano alle nostre celle un tempo comunicavano con il resto del monastero e scoprimmo che il muro di una delle ultime conduceva a un passaggio non più utilizzato dei monaci. […] Sebbene il muro fosse dello spessore di un solo mattone e abbastanza friabile, non fu facile forarlo. Avevamo appena infilato la punta del nostro strumento attraverso il mattone, quando una luce brillò attraverso l’apertura e qualcuno gridò in italiano dall’altra parte. Purtroppo avevamo scelto l’unica sera della settimana in cui un monaco puliva la cappella. Quella notte, in particolare, pioveva e per evitare di bagnarsi aveva deciso di imboccare il corridoio dismesso.

Un mese più tardi, alla fine di aprile, gli ufficiali inglesi sono avvisati che saranno presto trasferiti a sud. Tony, che non vuole abbandonare il proposito di raggiugere la Svizzera, si finge malato e, prima della partenza, è trasferito a Firenze, presso l’ospedale di Careggi, dove trascorre circa un mese. Trattenuto in una stanza al quarto piano della struttura, con un carabiniere che lo piantona fuori dalla porta giorno e notte, decide di tentare la fuga sfruttando una piccola sporgenza sotto la finestra della sua stanza: la mattina del 15 giugno, calandovisi, riesce ad entrare nella struttura attraverso un’altra finestra posta ai piani inferiori, percorre poi le scale ed esce all’aperto al piano terra.

Giunto alla stazione di Firenze, acquista un biglietto per Milano. Prosegue per Varese. Da qui cammina per circa dieci chilometri in direzione Porto Ceresio dirigendosi verso la frontiera; stabilisce, infine, di avvicinarsi a Como per provare a valicare il confine in zona Ponte Chiasso.

Raggiunge Ponte Chiasso il 19 giugno. L’obiettivo è quello di scavare una buca al di sotto del filo spinato che circonda il posto di frontiera attraverso cui passare dall’altra parte. Nella notte si mette all’opera:

Sono accadute diverse cose contemporaneamente. La campana sopra di me ha emesso un leggerissimo tintinnio, un ramo è caduto nelle vicinanze, la sentinella ha smesso di cantare e il rumore dei vagoni merci in manovra a Chiasso è diventato improvvisamente molto forte a causa del vento. Pregavo che le sentinelle rimanessero dove erano […]. Poi la fortuna sembrò di nuovo tornare dalla mia parte: dopo cinque minuti di silenzio, tranne la pioggia sulle foglie e il rumore delle rotaie, ho ripreso a lavorare fino a che lo spazio potesse essere abbastanza grande. La mia mano è arrivata a toccare il suolo svizzero e sono riuscito ad afferrare la radice di un albero e ad attraversare l’apertura senza scuotere la recinzione sopra di me.
Ero in Svizzera e libero.

Dopo il suo ritorno nel Regno Unito, Deane-Drummond continua a prestare servizio come ufficiale presso la Seconda Brigata dei Paracadutisti, inviata nel 1943 in Nord Africa.

Promosso al grado di Maggiore nel settembre 1944, partecipa all’operazione “Market Garden”[2] in Olanda, nella corso della quale è nuovamente fatto prigioniero. Il 22 settembre 1944, I tedeschi lo trasferiscono in una casa, adibita a prigione, nei pressi del villaggio olandese di Velp. Non visto, si nasconde per undici giorni all’interno di un armadio posto all’interno dell’edificio, coperto dalla carta da parati, che chiude dall’interno. Ne viene fuori il 4 ottobre, quando tutti i prigionieri presenti nella struttura sono già stati trasferiti. È rimpatriato il 22 ottobre 1944.

Dopo la fine della guerra, Anthony ha continuato a prestare servizio nell’esercito, partecipando a molte missioni internazionali e ricevendo numerose onorificenze.

Campi legati a questa storia

Bibliografia/Fonti

A. Deane-Drummond, Return Ticket, Collins, London, 1953

Pegasus Archive https://www.pegasusarchive.org/arnhem/deane_drummond.htm (01/2024)

 


Note:

[1] Royal Corps of Signals o RCS (“Regio Corpo delle Trasmissioni” in inglese) è un reggimento dell’esercito britannico specializzato nelle comunicazioni radio sui campi di battaglia.

[2] L’Operazione Market Garden è il nome in codice assegnato dai comandi Alleati a un’operazione militare in Olanda che aveva l’obiettivo di conquistare e controllare cinque ponti consecutivi (12-17 settembre 1944).