Ian Reid
7° battaglione Black Watch (51a divisione “Highland”)
Il capitano Reid è catturato il 6 aprile 1943 in Tunisia, mentre è in servizio presso il 7° battaglione della “Black Watch”. È ferito alla mano destra e trascorre quattro mesi nel PG 203 di Castel San Pietro Terme, ospedale per prigionieri nei pressi di Bologna. Ad agosto la sua salute sembra essere migliorata e Reid viene trasferito presso il PG. 47 di Modena. È nel campo solo da poche settimane, quando si diffonde la notizia dell’armistizio.
Benché il comandante italiano, d’accordo con l’Alto Ufficiale inglese, avesse dato ordine ai propri militari di resistere ai tedeschi in caso di occupazione del campo, le guardie iniziano ben presto a disertare, seguite da alcuni ufficiali inglesi che ne approfittano per evadere. Ian, inizialmente deciso a tentare la fuga, si lascia convincere dalle rassicurazioni circa l’imminente arrivo delle truppe alleate e abbandona il suo progetto.
Ian Reid (il secondo da destra) in uniforme, circa 1938
(Fonte: H. Reid, Dad’s war)
La mattina dell’11 settembre, mentre i tedeschi occupano progressivamente il campo, i prigionieri sono chiamati a raccolta dall’Alto ufficiale con un’inattesa comunicazione: «Signori, temo che abbiamo puntato sul cavallo sbagliato. Dobbiamo prepararci a partire per la Germania».
Ian, preso dallo sconforto, inizia a cercare possibili soluzioni per evadere: decide, così, assieme ai compagni Tom Cokayne e David Rollo, che condividono i suoi progetti di fuga, di disertare i vari appelli dei tedeschi e di nascondersi durante il loro svolgimento. Quando il trasferimento è ormai imminente, assieme a David (Tom è costretto, per ragioni di spazio, a cercare un altro rifugio) stabiliscono di utilizzare la buca scavata nelle settimane precedenti da un gruppo di neozelandesi al di sotto delle latrine, dove rannicchiati, in preda alle zanzare e ai cattivi odori, attendono che buona parte dei tedeschi presenti nel campo si allontani per poter aprire un varco nel filo spinato e fuggire.
Mi parve di stare appollaiato sulla sommità del muro per un secolo, curvato a prendere la roba da David, passandola dall’altro lato a Tom: lo zaino e gli stivali di riserva di David, la mia cassetta d’ordinanza, lo zaino e la borraccia di Tom. Una volta passato tutto, mi lasciai cadere giù dall’altra parte. C’era un’apertura tagliata nel recinto posteriore. L’attraversai con le provviste, mentre Tom aiutava David a scavalcare. Eravamo liberi!
Dopo essersi allontanati con successo dal campo si dirigono a sud. Tom è l’unico del gruppo a parlare e comprendere un po’ di italiano. Passano da Vignola e percorrono svariati chilometri fino a raggiungere il fiume Panaro, a ogni cascina ricevono qualcosa da mangiare e spesso ospitalità per la notte. Molte delle famiglie da cui si fermano sono incuriosite dalle loro vicende e li riempiono di domande.
Nei giorni a seguire riescono a valicare gli Appennini a bordo di un camion che li trasporta fino a Firenze. Raggiungono, attraverso la periferia, il sud della città con l’intento di raggiungere Roma. A sera, stanchi e accaldati, decidono di cercare ospitalità per la notte. L’abitazione a cui si rivolgono è però quella di un poliziotto -il comandante dei carabinieri del locale distretto- che, tuttavia, dimostra di essere dalla loro parte e suggerisce loro di non percorrere la strada per Roma, costantemente battuta dai tedeschi, ma di dirigersi in collina, verso il paese di Lucolena.
Seguendo il suo consiglio, a partire dal 27 settembre, transitano nell’area del Chianti, percorrendo oltre dodici chilometri al giorno. Il cambiamento metereologico delle ultime settimane, con frequenti temporali, li spinge a raggiungere il sud senza perdere tempo, dal momento che non sono equipaggiati per passare l’inverno sulle montagne. Riescono a trovare un nuovo passaggio in direzione Roma e giungono nei pressi del Lago Trasimeno. Il 1 ottobre sono alla periferia di Chiusi.
Sono trascorsi circa quindici giorni dalla fuga dal campo e la loro avanzata sembra procedere senza intoppi.
Ian è stupefatto dalla benevolenza dei contadini che incontra lungo il cammino, sempre ben disposti nei loro confronti: «non eravamo preparati a tutta questa generosità e gentilezza, ogni giorno qualcuno faceva di tutto per aiutarci».
Dopo due giorni di riposo presso una fattoria della zona, l’allontanamento di David che preferisce proseguire da solo, Ian e Tom riprendono il loro cammino. Il 4 ottobre, nei pressi di Città della Pieve, mentre si riposano in una zona boschiva vicina alla strada principale sono intercettati da due tedeschi e ricatturati.
Vengono temporaneamente rinchiusi in due celle separate nel carcere di Chiusi e affidati alla custodia di carabinieri italiani che riescono, però, a beffare realizzando un varco tra i due ambienti.
Tornati nei giorni a seguire sotto la custodia dei tedeschi, vengono traferiti in moto a Orvieto. Durante il viaggio pensano più volte a come poter fuggire. L’occasione arriva durante una sosta presso le mura della cittadina. Ian decide di approfittare della disattenzione del tedesco che li scorta per allontanarsi di corsa verso un sentiero che porta alla vallata.
Ad ogni modo, ora o mai più. Guardai Tom, che avrebbe dovuto fare un paio di metri in più, ma probabilmente correva più veloce di me. Il mio sguardo voleva dire: «Andiamo di là?». Aspettai un secondo per assicurarmi che avesse capito, dopodiché mi girai e scappai. I miei passi facevano un suono metallico sulla dura strada, il rumore mi rimbombava nelle orecchie. Raggiunsi il sentiero e mi buttai a precipizio. Mentre scomparivo sotto la scarpata udii dei colpi sordi, ma nessun fischio di proiettili.
Per alcune ora dopo la fuga Ian rimane nascosto in mezzo alla vegetazione chiedendosi che fine abbia fatto Tom. All’imbrunire, quando una famiglia di contadini sosta a lungo nei pressi del suo nascondiglio per raccogliere delle noci, decide di uscire allo scoperto e di chiedere loro aiuto. Viene così a scoprire che Tom è stato colpito a morte dal tedesco che li stava scortando.
Un conato di nausea mi travolse. Tom era morto… non era possibile! Quei tre spari erano diretti verso di me! Ce n’erano stati altri, dopo? Ma Tom non aveva mai neppure tentato di fuggire, o lo avrei sentito. […] Avevo visto uomini uccisi in battaglia, ma mai avevo sentito la morte così vicina. Ero paralizzato dall’orrore, la mia mente non riusciva a capacitarsi di quanto era insensata quella tragedia.
Il viaggio di Ian prosegue ora in solitaria. Su indicazione di alcuni contadini che l’hanno soccorso raggiunge Botto, frazione di Orvieto. Qui viene “adottato” da Ilario e dalla numerosa famiglia di Pompilio Nulli rimanendo in zona per circa un mese. Entra in contatto anche con Claude Turner, un prigioniero australiano fuggito dal PG. 106 di Vercelli, ora alloggiato a Orvieto. Claude fornisce nuovi dettagli circa l’uccisione di Tom, che è stato colpito a sangue freddo, a mo’ di vendetta per la sua fuga. I tedeschi avevano dato ordine che il suo corpo fosse gettato in un fosso lungo la strada, ma gli italiani, commossi dalla vicenda, erano andati a recuperarlo e lo avevano sepolto nel cimitero locale dopo averne celebrato il funerale.
È proprio insieme all’australiano che, agli inizi di novembre, nonostante le famiglie che lo hanno a lungo ospitato lo preghino di rimanere ancora, Ian decide di rimettersi in cammino verso sud.
I due fuggitivi attraversano il Tevere su di un carro trainato da buoi, messo a loro a disposizione da alcuni rurali del posto; raggiungono il paese di Montoro, nei pressi di Narni, con l’obiettivo di attraversare il fiume Nera, ma la zona è piena di tedeschi e decidono presto di allontanarsi. Transitano da Calvi dell’Umbria, Cantalupo, Fara Sabina e il villaggio di Orvinio, sperando di raggiungere la strada tra Roma e Pescara. Nel paese di Vivaro Romano, in cui arrivano il 12 novembre 1943, sono ospitati dalla famiglia di Camilla e Angelo Cerini.
I giorni seguenti furono molto piacevoli: eravamo stati fortunatissimi a trovare una famiglia così gentile. Le ragazze ci rammendarono i calzini, lavarono le nostre cose e ci diedero magliette e biancheria di ricambio. Mangiavamo benissimo. Nonostante loro non avessero mucche, andavano a comprare il latte per la nostra colazione. Ogni volta che le poche galline facevano le uova, cosa che non succedeva spesso, ce le servivano per cena. Poco dopo il nostro arrivo, Angelo comprò una pecora, e mangiammo la sua carne per quasi due settimane.
Da Amedeo Pafi, commerciante del paese, vengono a sapere come in zona siano presenti circa trenta ex prigionieri, con cui vengono in contatto. Amedeo riceve notizie dal Comitato di Liberazione di Roma e suggerisce loro di rimanere nascosti in paese, senza tentare di oltrepassare le linee del fronte. Le truppe alleate sono ferme, le montagne coperte di neve e i valichi sotto stretta sorveglianza.
Nel mese di dicembre iniziano a circolare voci circa la presenza di spie, si parla di un uomo con un occhio di vetro che si finge stagnino, mandato dai tedeschi con lo scopo di scovare prigionieri nascosti. Ian e Claude decidono comunque di rimanere in paese, cercano inoltre di convincere gli altri ex prigionieri alloggiati in zona a non indossare le proprie uniformi ma abiti civili, perché se scoperti in tenuta militare avrebbero messo in serio pericolo i propri soccorritori.
Nonostante i continui annunci circa l’imminente arrivo della spia dall’ “occhio di vetro”, il Natale 1943 trascorre con relativa tranquillità.
Camilla fece della pasta deliziosa, all’uovo, dorata e setosa, e Angelo tirò fuori una bottiglia di rosso speciale, il più buono che avessimo mai bevuto. La sera ascoltammo la radio, che passava la registrazione del discorso del Re. Avevo immaginato che il Natale mi facesse venire nostalgia di casa. Sapevamo che le nostre famiglie stavano pensando particolarmente a noi, probabilmente immaginando chissà cosa. Tuttavia, nonostante gli allarmi e le escursioni in collina, non credo che avremmo potuto passare un Natale migliore.
Alcuni giorni più tardi, Ian e Claude decidono di recarsi presso Poggio Cinolfo. La gente del posto però si dimostra sospettosa e spaventata: circola anche qui voce circa la presenza di alcuni tedeschi in borghese che si fingono prigionieri di guerra inglesi. Prima di ripartire per Vivaro decidono di fermarsi a bere qualcosa nella locale osteria dove sono presenti alcuni carabinieri. Ne nasce presto un diverbio, gli italiani sono infatti convinti che i due siano in realtà tedeschi. Claude è colpito con una pietra e sanguina. All’improvviso due tedeschi fanno irruzione nel locale. La ricattura è ormai inevitabile: «Ripensai a Angelo, Camilla e gli altri; di lì a poco avrebbero saputo tutto».
Ad Arsoli sono affidati alla Feldgendarmerie e di lì trasportati attraverso Rieti, verso L’Aquila, presso l’ex PG. 102, occupato dai tedeschi dopo l’armistizio e che ora ospita circa quattrocento militari, per la maggior parte prigionieri di guerra ricatturati durante un tentativo di attraversamento del fronte. Presso il campo un gruppo di militari sta cercando di scavare un tunnel per fuggire, i due compagni si uniscono nell’impresa. Il mattino del 31 dicembre, tuttavia, ricevono notizia di un loro imminente trasferimento in Germania. Prima tappa del viaggio a nord è l’ex PG. 77 di Pissignano[1], tra Foligno e Spoleto. Nella struttura le condizioni di vita sembrano essere davvero pessime: fame, freddo, sporcizia. Anche questa volta Ian e Claude sono decisi a evadere. L’occasione arriva quando notano un camion tedesco che entra a giorni alterni nel campo per scaricare del cibo ed esce senza alcun controllo. Decidono allora di nascondersi nel mezzo per provare ad uscire dal campo. Il piano di fuga si conclude con un successo: riescono, ancora una volta, a dileguarsi nelle campagne circostanti.
«Ce l’abbiamo fatta! Qua la mano», disse Claude. Ci stringemmo le mani solennemente, non riuscivamo a credere che eravamo di nuovo liberi.
Copertina delle memorie di Ian Reid pubblicate per la prima volta nel 1947
Una volta fuori, Ian e Claude, si incamminano verso sud, con l’obiettivo di tornare a Vivaro, presso la casa di Camilla e Angelo. Proseguono il loro percorso con due biciclette che hanno rubato a un contadino e che rendono più veloce il viaggio. Si avvicinano a Rieti e giungono nel paese di Tufo, nei pressi di Carsoli, dove vengono ospitati dalla famiglia Di Marco. Sono a pochi chilometri dalla loro destinazione.
Arrivare a Vivaro per l’ora di pranzo era il mio obiettivo, pensai mentre mi lavavo le mani e la faccia. Non mi sembrava vero. Era il 13 gennaio e, solo una settimana prima, soffrivamo in quell’orribile campo. Esattamente dieci giorni prima, avevamo deciso di fare quella sfortunata gita a Poggio. Ora ci trovavamo solamente a mezza giornata di viaggio da “casa”.
L’unica via che porta a Vivaro li obbliga ad attraversare il paese di Riofreddo, che sanno essere occupato. Claude insiste per continuare in bici, ma appena raggiungono la piazza del villaggio si accorgono che è piena di tedeschi. Riescono ad allontanarsi senza essere fermati e ad arrivare finalmente a Vivaro, dove ricevono una accoglienza calorosa. La loro permanenza questa volta dura però poco: nei giorni a seguire il paese è oggetto di una retata tedesca: molti dei prigionieri rifugiatisi in zona sono catturati. Ian e Claude riescono a mettersi in salvo, ma sono costretti ad abbandonare il villaggio, non più sicuro, e a rifugiarsi nella vicina valle. Trascorrono i mesi successivi presso Tufo, prima nella casa di Enrico, poi, quando sono raggiunti da voci di possibili incursioni tedesche in paese, vengono alloggiati in una rimessa per la paglia nascosta tra le vigne, ad alcuni chilometri dal centro abitato. In quelle settimane sono coinvolti anche nell’organizzazione di una locale banda partigiana impegnata in agguati ai mezzi tedeschi. Le poche armi a disposizione del gruppo sono nascoste proprio nel loro rifugio. La mattina del 6 aprile vengono avvisati della presenza di tedeschi in paese, e, tuttavia, si attardano ad allontanarsi nella convinzione che la loro capanna sia lontana dall’area più battuta. Ma si sbagliano: i tedeschi sono presto condotti al loro nascondiglio da uno studente del luogo con cui sono più volte entrati in contatto e che invece si rivela essere una spia. Il timore è che la presenza delle armi appartenenti al gruppo partigiano, presto rinvenute dai tedeschi, siano motivo di fucilazione.
Fu allora che capii il pieno significato di tutto quel che stava succedendo, e quando ciò avvenne, fui accecato dal panico. La banda armata, le granate poste proprio nello scaffale sopra la mia testa: tanti prigionieri erano stati fucilati su due piedi solo perché portavano una pistola. Un terrore gelido si impadronì di me, il terrore della morte improvvisa e violenta.
Li attende invece un trasferimento in Germania. Nelle settimane a seguire Ian e Claude transitano dal carcere di Avezano, sostano per sei settimane nell’ex PG.82 Laterina[2] e poi in un campo di transito a Mantova[3] . Qui, con un nuovo e ingegnoso piano di evasione, riescono ancora una volta a fuggire, venendo però presto ricatturati.
Il racconto dei mesi a seguire è quello della dura prigionia in Germania: nel giugno 1944 arrivano presso lo Stalag VII A a Moosburg, in Baviera, dove i due compagni vengono definitivamente separati; da luglio a marzo 1945 Ian è prigioniero presso l’ Oflag IX A/Z a Rotenburg.
Dopo cinque evasioni, ricatture, vagabondaggi, incontri e avventure, il capitano Reid è finalmente rimpatriato l’8 aprile 1945.
Campi legati a questa storia
Fonti
- Roger Absalom, A Strange Alliance. Aspects of escape and survival in Italy 1943-45, Firenze, Olschki, 1991 (trad. it., L’alleanza inattesa. Mondo contadino e prigionieri alleati in fuga in Italia 1943-1945, Bologna, Pendagron, 2011).
- Janet Kinrade Dethick, The Long Trail Home, Lulu.com, 2016 (trad. it., La lunga via del ritorno: i prigionieri alleati in Umbria (1943-44), Perugia, Morlacchi, 2018).
- Howard Reid, Dad’s War, London, Bantam Books, 2003.
- Ian Reid, Prisoner at Large. The Story of Five Escapes, Victor Gollancz, London 1947 (trad.it., Un prigioniero in fuga. Storia di cinque evasioni, edizione a cura di Tommaso Rossi, Foligno, Editoriale Umbra-Isuc, 2019.
Note:
[1] Con l’armistizio il PG.77 di Pissignano, occupato dai tedeschi, aveva preso la denominazione di Durchgangslager (Dulag) 226. Cfr. I Reid, Un prigioniero in fuga, nota 7, p.166.
[2] Dopo l’8 settembre 1943 il PG.82 di Laterina era passato sotto il controllo tedesco divenendo Dulag 132, e rappresentando uno dei principali centri per il concentramento dei prigionieri ricatturati in attesa di essere deportati in Germania. Cfr. I. Reid, op. cit., nota 4, p. 249.
[3] Non è chiaro di quale struttura si trattasse. Mantova non aveva ospitato campi di internamento per prigionieri nel periodo 1940-1943. Dopo l’armistizio, tuttavia, il suo territorio divennero area di concentramento e smistamento/transito di tutti coloro che, a bordo di treni, venivano avviati in Germania POWs ricatturati; di questi ultimi, si stima che ve ne siano transitati svariate migliaia. I campi in città erano tre, con l’aggiunta di un ospedale per prigionieri di guerra. Cfr. I. Reid, p. 249 nota 1.