John Fishwick Leeming
(1895 – 1965)
Lieutenant, Royal Air Force
John Leeming, uomo d’affari e scrittore con la passione per il volo, si unisce alla Royal Air Force nel 1939 andando ad affiancare il maresciallo dell’aeronautica Owen Tudor Boyd.
Il 20 novembre 1940 è in rotta verso Malta quando il bombardiere su cui viaggia, colpito dalla contraerea tedesca, precipita nei pressi di Catania. La Sicilia è in quei giorni occupata dal nemico. L’aereo si schianta, ma i sette membri dell’equipaggio ne vengono fuori illesi. Nelle fasi che precedono la caduta a terra John e i suoi compagni sono costretti a disfarsi, gettandole in mare, di alcune cassette contenti oltre 250.000 sterline, denaro che, per conto del governo britannico, stanno trasportando a Malta.
Dispersi nelle campagne siciliane, gli uomini sono presto intercettati da una pattuglia della marina militare italiana che li trasferisce a Catania. John e il maresciallo Boyd, separati dal resto del gruppo e ora prigionieri di guerra, in virtù del loro rango di ufficiali, sono alloggiati presso il quartier generale dell’esercito italiano in città e trattati con un certo riguardo.
Nell’oscurità mi giravo e rigiravo nel letto. Avevo l’abitudine di leggere per addormentarmi. Ora, senza un libro, stressato, passavo da un problema all’altro e mi tornava in mente l’incredibile idea di essere prigioniero. Non poteva essere vero. Sentii la chiave girare nella toppa. Ero chiuso dentro. Mi avevano rinchiuso. Non era passato molto tempo da quando mi sentivo libero di venire e andare, da ora in poi altri mi avrebbero detto cosa fare. Qualcosa di lugubre, di inesorabile in quel giro di chiave nella toppa. Chiuso dentro…
Qualche giorno più tardi, tuttavia, in seguito a un mal riuscito tentativo di fuga che indispettisce gli italiani, i due militari sono trasferiti in treno a Roma. Vengono alloggiati in zona Centocelle, nei pressi dell’aerodromo, in una casa di campagna fatiscente sorvegliata da sentinelle, qui trascorrono il tempo imparando l’italiano e immaginando piani di fuga.
Era uno strano modo di vivere. Ogni mattina un altro giorno di ozio. L’oggi come ieri, due stesse persone [John e Boyd] nello stesso ambiente angusto, lo stesso tavolo, la stessa porta, gli stessi rumori, il non poter scegliere. Tutto quello che ci si chiedeva era di rimanere in vita e accettare ciò che altri programmavano per noi.
Nel dicembre 1940 sono improvvisamente traferiti a Sulmona.
Villa Orsini, a circa un miglio dalla città di Sulmona, non era molto grande. Il suo architetto, a quanto pare, aveva curato molto le decorazioni e gli ornamenti […]. Ma l’architetto sembrava non aver mai considerato la possibilità che ci si potesse vivere. […] Nessuna cosa funzionava bene. Boyd e io il primo giorno lo impiegammo a svitare le porte. […]. Il secondo ci dedicammo a noi stessi riparando lo scaldabagno elettrico e facendo funzionare i rubinetti […]. Dopo alcune settimane di lavori, Boyd disse che il governo italiano doveva considerarsi debitore nei nostri confronti per le riparazioni effettuate […].
I giorni trascorrono in modo tranquillo. Ai due prigionieri viene permesso di camminare nei dintorni, sebbene sotto sorveglianza; durante le loro passeggiate si imbattono spesso nei contadini del posto intenti a lavorare nei campi, questi sembrano considerarli più dei “turisti” che dei nemici. La maggior parte, infatti, li saluta con il sorriso e un “buongiorno”, molti direttamente in inglese, avendo un passato da emigranti.
Occasionalmente ricevono visite di ufficiali britannici che trascorrono la loro prigionia presso il vicino campo di Fonte d’Amore, a loro invece non è mai data la possibilità di visitarlo.
Nell’aprile 1941, mentre John e il maresciallo Boyd sono sul punto di mettere in atto uno dei piani di fuga a cui meditano da tempo, vengono raggiunti dalla notizia che è imminente l’arrivo presso la villa di alcuni generali inglesi da poco catturati in Nord Africa[1].
Il Generale Philip Neame è ora l’ufficiale senior di un gruppo di ventidue uomini costretti a convivere in uno spazio ristretto e non attrezzato: «Eravamo uomini di vita attiva, ciascuno con il suo carattere. Relegati e inoperosi in una piccola villa, era inevitabile che i nervi cedessero ed esplodessero per la rabbia».
Dopo l’arrivo dei generali non ci furono seri progetti di fuga perché nel giro di una settimana gli italiani promisero di trasferirci in una nuova casa più grande. Capimmo che la struttura si trovava a Nord. Poiché le regioni erano vicine alla frontiera svizzera decidemmo di rinviare ogni progetto di fuga fino al trasferimento nella nuova dimora.
Il trasferimento, tuttavia, avviene solo alcuni mesi più tardi. Il gruppo lascia Sulmona il 24 settembre 1941 diretto al castello di Vincigliata, nei pressi di Firenze; la composizione dello stesso cambia con l’arrivo di altri militari[2]. Divisi in piccoli gruppi i prigionieri trascorrono le loro giornate organizzando piani di fuga. Sei tra loro[3], per mezzo di un tunnel con cui raggiungono le fondamenta del castello, riescono a evadere. John non è parte attiva del gruppo e punta a lasciare Vincigliata per mezzo di un rimpatrio.
Da quando il mio piano di andarmene da Villa Orsini con un treno per Roma era fallito, avevo perso fiducia nei “piani di fuga”. Ne avevo sentiti tanti: discussi, ragionati, pianificati, modificati, tentati a metà e così via. […] A mio avviso il problema non era come fuggire. […] L’ostacolo maggiore era viaggiare per tutta l’Italia, attraverso la frontiera, entrare in un paese neutrale. […] Non avevo nessuna fiducia nella mia capacità di andare in giro vestito da suora o cose simili. Ero un comune uomo d’affari britannico e tale apparivo. […] Dopo una settimana di attenta riflessione, elaborai il mio piano di partenza.
Con la connivenza di Neame, altri compagni e un medico italiano, John decide di fingersi pazzo. Si “cala nella parte” iniziando a ridurre l’alimentazione e a privarsi del sonno: «Alla fine di sei settimane stavo cominciando a sembrare, e mi sentivo davvero malato».
L’8 gennaio 1942 viene trasferito presso l’ospedale di Careggi di Firenze. È seguito da uno specialista di sentimenti antifascisti che lo aiuta, certificando che è affetto da manie di persecuzione. Questi richiede che sia esaminato da una commissione medica per un eventuale rimpatrio. Nei mesi a seguire John continua a recitare la sua parte:
Aiutato dalle informazioni apprese dallo specialista, manifestai sintomi consoni al mio caso. […] Persuaso che la buona riuscita dipendesse dal vivere la parte, divenni un relitto agitato e lagnoso. Per le guardie italiane ero causa di timore e scoraggiamento. Il maggiore Bacci era preoccupato di un mio eventuale suicidio. […] Durante questo periodo scrissi lettere alle autorità italiane. Erano lamentele ingegnose. […] Roma alla fine prese in considerazione quel che dicevo e decise di inviare a visitarmi uno specialista.
La commissione medica arriva a Vincigliata il 1 maggio 1942, otto mesi dopo l’inizio del piano di John e lo giudica idoneo a un ritorno in patria. I sei mesi successivi sono i più duri: cerca di rimettersi in salute e contemporaneamente deve continuare a fingere di essere malato. Nel gennaio 1943 giunge notizia che i prigionieri da rimpatriare – lui e Pip Stirling – saranno trasferiti presso l’Ospedale Militare di Lucca e da lì in Inghilterra. È il momento che John attende da tanto.
Trascorsi i quattro giorni successivi in stato di agitazione, facendo e rifacendo i bagagli. Mi accorgevo che realmente era giunto il momento. Vi fu tristezza nel partire. Mi ero talmente abituato alla routine della vita da prigioniero che l’idea di tornare alla congestione della vita comune era inquietante per me. Guardavo con tenerezza il castello, i panorami, i contadini che passavano. È stata dura separarmi da alcuni dei miei compagni prigionieri.
La permanenza presso l’ospedale di Lucca non è delle migliori, la struttura è fatiscente e sovraffollata, ospita oltre cento malati di diversa gravità. Per integrare l’alimentazione, sempre insufficiente, i militari si cucinano di nascosto usando fornellini elettrici acquistati di contrabbando.
A fine marzo giunge finalmente notizia che il rimpatrio è imminente. John e altri prigionieri vengono trasferiti alla stazione di Lucca su delle ambulanze e da lì partono in treno: attraversano la Liguria, poi la Francia, la Spagna, il Portogallo e da lì, l’8 aprile, salgono a bordo di una nave medica pronta a salpare per l’Inghilterra.
Appena sentii i miei piedi toccare il ponte sulla nave, da sentimentale quale sono, guardai in alto alla bandiera che sventolava e dissi ad alta voce «É fatta!».
Campi legati a questa storia
Bibliografia/Fonti
P. Neame, Playing with strife: the autobiography of a soldier, G.Harrap & Co, London, 1947.
J.F. Leeming, Always tomorrow, George G.Harrap & Co, London, 1951 [trad.it], Sempre domani, Qualevita, Torre di Nolfi-L’Aquila, 2019.
Note:
[1] Si tratta di Philip Neame, generale ufficiale comandante in capo, Sir Richard O’Connor, generale ufficiale comandante delle forze inglesi in Egitto, Adrian Carton de Wiart, generale comandante della missione italiana in Yugoslavia; Gambier Parry, il brigadiere E.J.Todhunter, il colonnello G. Jounghusband, il sergente T. Brain, il sergente H. J. Baxter, il sergente Price, il sergente Pitt e otto uomini di più basso grado.
[2] Si aggiungono il brigadiere Rudolph Vaughan, il colonnello George Fanshave, il luogotenente Victor Smith e il luogotenente Lord Ranfurly, il brigadiere James Hargest, Reginald Miles, “o Bass” Armostrong e Pip Stirling
[3] Si tratta di Neame, Miles, Hargest, Carton de Wiart, Boyd, O’Connor e Combe. Per un racconto dettagliato di quelle vicende si faccia riferimento al volume di Philip Neame, Playing with strife: the autobiography of a soldier, Harrap, London, 1947.