Raymond Ellis
(1920-2014)
British NCO, 107th Regiment, South Notts Hussars, Royal Artillery
Raymond, uno dei pochi sopravvissuti del 107° Reggimento degli Ussari del Nottinghamshire alla “Battaglia di Knightsbridge” (5 giugno 1942), è catturato al termine della stessa nei pressi di Gazala (Libia).
Giunto in Italia, viene internato presso il PG. 66 di Capua e poi trasferito, a partire dal mese di ottobre, presso il PG. 53 di Sforzacosta (Macerata), campo sovraffollato, in cui le condizioni di vita sono descritte come pessime, in par ticolare durante il lungo e freddo inverno ‘42.
Raymond Ellis a Marsa Matruh, nel 1940.
Fonte: R. Ellis, Al di là della collina, 2001
Detestavo essere prigioniero, non solo a causa della fame e delle altre privazioni che questa condizione comportava: la mia natura semplicemente abortiva l’idea di essere rinchiuso dentro un recinto, come un animale, privato completamente della libertà. Desideravo poter girovagare senza restrizioni e giurai a me stesso che mai più avrei permesso a qualcuno di porre limite ai miei spostamenti.
L’idea di una possibile fuga non abbandona mai Raymond, che inizia a studiare l’italiano e ad allenarsi con altri compagni di prigionia nella lotta libera: si tratta di un’attività che gli permette di ritrovare presto una discreta forma fisica. L’impreparazione dei soldati italiani a presidio del campo, che gli appare evidente in seguito ad alcuni episodi di cui è diretto testimone, lo spinge a elaborare un piano di evasione:
Più ci pensavo più mi rendevo conto che i tempi erano ormai maturi per tentare di riconquistare la libertà e il mio piano iniziò lentamente a prendere forma. Non contemplava tentativi eroici di sfondare il reticolato di filo spinato o valicare muri insormontabili, sarei bensì uscito di soppiatto dal medesimo cancello da cui avevo fatto ingresso mesi addietro.
Mappa del PG. 53 di Sforzacosta.
Sulla sinistra la via di fuga seguita da Raymond
Fonte: R. Ellis, Al di là della collina, 2001
Raymond si convince che il miglior modo per fuggire è quello di spiazzare le sentinelle di guardia, avviandosi in modo tranquillo e risoluto verso il portone d’ingresso e dando così l’impressione di svolgere un’attività autorizzata dagli stessi ufficiali italiani. Se, dopo l’iniziale disorientamento, le guardie avessero manifestato l’intenzione di sparare, le avrebbe dissuase ricordando loro che un attacco armato sarebbe stato punito dai comandi britannici che stavano avanzando rapidamente da Sud e avrebbero ben presto preso il controllo del campo.
Condivide il suo piano con Bill Sumner che, dopo un iniziale rifiuto, decide di unirsi a lui.
Tutto si svolge come previsto: le guardie, prese alla sprovvista, li lasciano passare e, confuse dalle minacce di fucilazione che Raymond prospetta loro, non aprono il fuoco[1]. È la a metà di agosto 1943.
Non lasciammo loro il tempo di riflettere. In un baleno oltrepassammo il portone e ci lanciammo di corsa per la strada, mettendoci al riparo nella campagna circostante. Superato il fiume, risalimmo la sponda opposta dirigendoci verso la base della collina. Avevamo appena cominciato l’ascesa quando udimmo i primi colpi di arma da fuoco. […] Superammo il ciglio dell’altura e ci gettammo in terra. […] Lì disteso, all’ombra delle viti, mi sentivo euforico. Ero vivo, il piano aveva funzionato ed ero scappato. Non riuscivo a crederci. Ero libero.
I due fuggitivi si mettono in cammino attraverso le campagne marchigiane. L’idea è quella di dirigersi a sud passando dalla costa adriatica, nella speranza di ricongiungersi alla truppe alleate.
Nonostante cerchino di evitare i centri abitati, si accorgono di come sia difficile passare inosservati tra i campi, tutti fittamente coltivati e in cui incontrano, fin da subito, i tanti contadini che vi lavorano e di cui non sanno se fidarsi. Si rendono ben presto conto, tuttavia, che per trovare cibo e riparo devono necessariamente fare affidamento sugli abitanti della zona ed è a loro, appunto, che iniziano a rivolgersi durante il percorso, imparando come «tanto più grande e ricca appariva la casa, tanto più fredda e distante era l’accoglienza». Con una sorta di rituale decidono di bussare solo alle abitazioni più misere e isolate, ricevendo quasi sempre aiuto e assistenza da chi le abita.
Dopo alcuni giorni di vagabondaggio giungono nei pressi di San Ruffino (contrada di Massa Fermana), qui vengono intercettati da Alessandro, contadino del posto, che li invita a cenare nella propria casa, assieme alla moglie Paola e ai sui figli. Nei mesi a seguire Raynold sarà “adottato” dalla famiglia Minicucci.
Non dimenticherò mai quel pasto. […]. Mangiammo avidamente una quantità impressionante di pasta, senza sugo né condimento alcuno, e una piccola porzione di salame per dare sapore al pane. C’era vino a volontà e la conversazione era animata e piacevole. Che meraviglia essere nuovamente in famiglia. Da quando avevo passato l’Inghilterra, ed erano ormai quattro anni e mezzo, era la prima volta che godevo di tale privilegio […].
Quando alcuni giorni dopo arriva il momento di congedarsi e di riprendere il cammino, i due ex prigionieri si lasciano convincere dalla famiglia, in apprensione per la loro sorte, che la scelta più prudente è trascorrere l’inverno con loro. I due accettano di buon grado l’offerta di aiuto ponendo due condizioni: avrebbero dato una mano nei lavori dei campi e in caso di pericolo si sarebbero dileguati nelle campagne.
Ha così inizio la vita da contadino di Raymond che, da straniero, diviene presto un attento e preciso osservatore del mondo rurale marchigiano: le fatiche del lavoro, la famiglia, la casa, la religione, la percezione della guerra, la gestione dei rapporti amorosi (farà presto la corte ad Elena, figlia della vicina famiglia Lavoresi).
Nei primi tempi passati tra queste persone avrei forse potuto provare un senso di superiorità nei loro confronti. Supposi e mi sbagliavo che fossero dotati di scarsa intelligenza, per il semplice fatto che non avevano ricevuto alcuna istruzione e non sapevano leggere o scrivere. Ma più vivevo con loro, più mi accorgevo di quanto fosse errata la mia supposizione. Non impiegai molto tempo a rendermi conto che molti di loro erano dotati di un’intelligenza pronta e dimostravano una grande perizia in attività a me sconosciute. Sapevano eseguire una gran quantità di lavori manuali dimostrando una tale ingegnosità da lasciarmi spesso sbalordito.
La zona in cui hanno trovato rifugio si dimostra in quei mesi abbastanza tranquilla: i tedeschi sono concentrati soprattutto presso le linee di rifornimento, mentre il pericolo maggiore è rappresentato dai fascisti locali, a caccia di renitenti, che girano spesso di casa in casa e da cui in qualche occasione i due militari sfuggono grazie alle pronte segnalazioni della famiglia che li ospita.
Raymond, in particolare, si dà da fare nei lavori dei campi, provandone in prima persona la durezza: impara ad aggiogare i buoi e a condurli al pascolo, ad arare la terra; preoccupato poi dalla mancanza di istruzione dei bimbi più piccoli delle famiglie con cui viene in contatto decide, nei mesi più freddi, quando le attività agricole sono ferme, di organizzare una piccola scuola nel sottotetto di casa, insegnando loro a scrivere e a fare i calcoli più elementari.
È proprio durante l’inverno che inizia a sentire l’esigenza di contribuire in modo più decisivo allo sforzo bellico; decide, in tal senso, di unirsi a una locale banda di partigiani. In compagnia di Harry Day, altro prigioniero evaso nascosto in zona Loro Piceno e appartenente al suo stesso reggimento, che ha ritrovato qualche tempo prima, si avventura sulle alture circostanti, transitando tra Montappone, Monte Vidon Corrado, San Ginesio alla ricerca del gruppo di patrioti. L’incontro con i partigiani[2] in località Monastero, dove questi stazionano, è però fonte di delusioni e scatena nei due prigionieri critiche fin troppo severe: ai loro occhi di militari esperti e ben addestrati, abituati a un dura disciplina, quegli uomini sembrano più banditi che combattenti, senza alcuna preparazione militare e in balia delle circostanze, spesso spavaldi, mai disposti ad accettare consigli, non curanti delle rappresaglie che con le loro azioni avrebbero potuto scatenare contro la popolazione locale:
Più il tempo passava, più esaminavo la situazione, più mi sentivo ansioso. Non vi era nulla della disciplina che io associavo alla guerra. Niente addestramento, niente turni di guardia, non un sistema adeguato di comando, né preoccupazione per la cura dei feriti. Eravamo capitati in una banda di dilettanti, priva di un’esperienza di guerra che potesse guidarli.
Senza grandi rimpianti, i due decidono di abbandonare il gruppo e di fare rientro ciascuno nelle “proprie famiglie”. Nei successivi mesi della sua permanenza in zona, Raymond si sposta presso la modesta casa di Ida e Carlo, a pochi chilometri da quella della famiglia Menicucci, che continua comunque a frequentare.
Quando, nell’estate del ’44, l’avanzata alleata si avvicina capisce che è tempo di andare:
Sapevamo tutti che quelle erano i miei ultimi giorni a Massa fermana. Le settimane successive mi avrebbero visto o morto o prigioniero o salvo dietro le nostre linee. Naturalmente la mia preoccupazione principale era di rimanere in vita, ma, a quel punto, c’erano anche altre considerazioni che era doveroso fare. Innanzitutto c’era una ragazza che mi voleva bene. Che cosa fare di lei? Poi c’era il pensiero di lasciarmi alle spalle una famiglia che avevo imparato ad amare. Era una situazione paradossale, avrei dovuto sentirmi felice della prospettiva del ritorno casa, e di certo lo ero, ma il piacere che pregustavo era oscurato dalla tristezza che provavo di andarmene da quell’angolo di Italia che ormai chiamavo casa mia.
Nelle settimane successive Raymond riesce a ricongiungersi alle linee alleate e, nel settembre 1944, a tornare finalmente a Nottingham da cui era partito anni addietro. Dismessi gli abiti militari, sarà fino alla pensione insegnante e direttore didattico. Nel corso degli anni è tornato più volte in visita nei luoghi della sua prigionia e fuga, sentendosi sempre parte di quelle famiglie che lo avevano accolto con tanta generosità.
Campi legati a questa storia
Fonti
- Raymond Ellis, Al di là della collina. Memorie di un soldato inglese prigioniero nelle Marche, Maria Grazia Camilletti (a cura di ), Affinità Elettive, Ancona, 2001.
- Raymond Ellis (testimonianza orale) <https://www.iwm.org.uk/collections/item/object/80012392> Imperial War Museum (IWM) London (1992)
- Giuseppe Millozzi, Prigionieri alleati: cattura, detenzione e fuga nelle Marche 1941-1944, Fondazione Ranieri di Sorbello, Perugia, 2007.
- Giuseppe Millozzi, I campi di prigionia nelle Marche e il rapporto tra contadini e Alleati, in Serena Innamorati e Ruggero Ranieri (a cura di), Voci di giovani nell’Italia divisa (1943-1945). Percorsi di opposizione e incontri con gli Alleati tra Umbria, Marche e Toscana, Working paper of the Uguccione Ranieri di Sorbello Foundation, n.7, 2006, pp. 70-82.
Note:
[1] All’8 settembre 1943 il comandante italiano del campo, d’accordo con il Senior British Officer, decide di non aprire le porte della struttura per favorire l’evacuazione dei prigionieri. La sera del 9 settembre circa 200 prigionieri si concentrarono nella zona del campo sportivo cercando di rimuovere il filo spinato. Il tentativo è subito represso. A partire dal 15 settembre la progressiva defezione dei soldati di guardia dà l’opportunità a circa 1500 detenuti di abbandonare il campo. Tra il 19 e 20 settembre l’arrivo dei tedeschi impedisce ulteriori fughe.
[2] Si tratta probabilmente del gruppo Gruppo Bande Nicolò, sorto il 23 settembre 1943 e stanziato nella zona di Monastero, confluivano le varie bande partigiane che occupavano la zona tra Amandola e San Ginesio.